negli anni ’70 è stato messo a punto un metodo per dosare la renina circolante tramite la misura della sua attività enzimatica: PRA (Plasma Renin Activity:). In pratica, si misura con metodo RIA la quantità di Angiotensina I generata per azione della renina(renina da parte dell’apparato juxtaglomerulare del rene sono: -la concentrazione del sodio nel tubulo distale: le cellule della macula densa registrano le variazioni del carico di sodio nel tubulo, per cui un aumento della concentrazione inibisce la secrezione di renina, una diminuzione, invece, la stimola) sull’angiotensinogeno, dopo incubazione del campione, per un periodo variabile da 1 a 3 ore, in condizioni controllate di temperatura e di pH (5.4–5.7, 6.0, secondo altre metodiche). La concentrazione di Angiotensina I nel plasma, alla fine dell’incubazione, è dell’ordine di alcuni ng/mL,
cioè mille volte superiore a quella fisiologica e quindi nell’intervallo di sensibilità di un RIA convenzionale. Poiché la generazione di Angiotensina I è in funzione della quantità di plasma utilizzato e della durata dell’incubazione i livelli di PRA devono essere riferiti in ng/mL/h. Il metodo RIA consiste, come è noto, in una competizione che si instaura tra antigene marcato (tracciante radioattivo) ed antigene non marcato (standard, campione) a
legarsi ad un numero limitato di siti leganti specifici
sull’antisiero adeso alle provette. Dopo l’incubazione il liquido contenuto nelle provette viene eliminato e le provette contate in un gamma counter. La radioattività ottenuta per ciascuno standard o campione, è inversamente proporzionale alla quantità di ormone presente nel campione. La necessità di un bianco (incubato a 4°C) per ogni campione (incubato a 37°C), (l’incubazione è
effettuata in presenza di un inibitore enzimatico, che blocca l’azione dell’ACE nonchè delle angiotensinasi, ma non quella della renina, per evitare la
degradazione enzimatica dell’Angiotensina I) e del rispetto rigoroso dei tempi di incubazione rende il dosaggio complesso, soprattutto se applicato a
grandi serie di campioni. La stessa fase preanalitica si presenta cruciale; il prelievo deve essere effettuato mediante siringa e con provetta
prerefrigerata, trasportato in bagno di ghiaccio, il plasma deve essere immediatamente separato in una centrifuga refrigerata, e successivamente va
rapidamente congelato. In uno studio, circa il 70% dei casi di incongruenza tra dato analitico e situazione fisiopatologia era dovuto ad una gestione
non corretta della fase preanalitica. Infine, il fattore intrinsecamente limitante del dosaggio del PRA è il livello di angiotensinogeno plasmatico; in caso
di patologie in cui questo sia basso (epatopatie, cirrosi, scompenso cardiaco congestizio) si possono riscontrare valori di PRA sottostimati, rispetto al
reale tasso di renina attiva, mentre si ha al contrario una sovrastima del PRA in casi di pazienti con angiotensinogeno elevato (gravidanza,
contraccettivi orali, estrogenoterapia, corticoterapia, etc.). Un metodo alternativo per quantificare la renina è quello di misurarla direttamente,
utilizzando anticorpi di adeguata specificità; anni fa, questo non è era possibile, perché gli anticorpi policlonali disponibili non distinguevano la forma
attiva da quella inattiva dell’enzima. Successivamente sono stati ottenuti anticorpi monoclonali, cioè capaci di interagire con un singolo epitopo
immunologicamente determinante, specifici sia per la renina attiva che per quella inattiva, con i quali è stato possibile allestire una metodica IRMA.
Precedentemente (1), questa tecnica prevedeva una prima fase di incubazione del plasma con una sospensione di ossido ferroso adeso a particelle di
poliacrilamide agarosio, su cui era adsorbito un primo anticorpo monoclonale in grado di riconoscere sia la renina attiva che quella inattiva. Dopo l’incubazione i complessi renina-antirenina formatisi venivano separati dal supernatante grazie all’uso di barre magnetiche e risospesi in una soluzione
tamponata contenente un secondo anticorpo radiomarcato con Iodio125, specifico per la forma attiva. Si formavano così dei complessi a “sandwich”,che, dopo l’allontanamento del tracciante in eccesso venivano quantificati mediante la misura della radioattività residua, direttamente proporzionale al loro numero.