Oggi vi scrivo, ahimè, dal letto poiché ammalato. Con tanto tempo a disposizione e poco altro da fare ho scritto un nuovo post, spero per voi, interessante. Oggi parleremo della memoria e dei suoi aspetti più curiosi. La parola chiave di oggi è ‘Memento’, un termine latino ed inglese che significa “ricordati” e che tra l’altro è anche un titolo di un film utile da commentare.
Memento
Il film Memento, diretto da Christopher Nolan nel 2000, parla di un ragazzo di nome Leonard Shelby impegnato nel vendicarsi di alcuni criminali che violentarono ed uccisero la moglie durante una rapina andata male. Tentando di salvare la moglie dai due malviventi, Leonard rimane gravemente ferito alla testa, e tale trauma gli causa l’impossibilità di accumulare nuovi ricordi (‘amnesia anterograda’). Leonard ricorda proprio tutto quello che è successo poco prima dell’incidente, ma è incapace di fissare nuovi ricordi. Per immedesimarsi meglio nel protagonista, il montaggio del film replica proprio il suo punto di vista. In pratica il film procede su due binari: le scene si susseguono alternativamente dall’ultima in ordine cronologico, poi alla prima, poi la penultima, poi la seconda, e così via. In questo modo lo spettatore insieme al protagonista vive il momento sospeso nel tempo e senza poterlo inquadrare in un contesto cronologico. L’intreccio, montato lungo tutto il film, verrà sciolto solo alla fine con una scena chiave. Consiglierei la visione di questo film agli appassionati di puzzle, ed a quelli che hanno un’ottima memoria.
Henry Gustav Molaison
Tra le altre cose il protagonista del film ricorda dettagliatamente la storia di un certo Sammy che ha avuto il suo stesso problema di memoria. I frammenti di questa storia nella storia sono sparsi lungo tutto il film, ed è volutamente confusa da molte scene di pochi secondi che insinuano dubbi e perplessità nello spettatore.
Una cosa molto curiosa è che la storia di Sammy narrata dal protagonista nel film è ispirata da un fatto vero e che ha fatto molto eco nel campo delle neuroscienze. Si tratta di Henry Gustav Molaison, sicuramente uno dei più grandi contributori nel campo delle neuroscienze. Come avete capito, non si tratta di un grande ricercatore e neanche di un coraggioso eroe, bensì si tratta di una persona davvero molto sfortunata, che suo malgrado ha rivoluzionato il campo nelle neuroscienze degli ultimi 50 anni. La sua storia e la sua patologia è stata studiata dettagliatamente da neurologi, psichiatri e da tanti studenti di medicina per tantissimi anni. Per capirne l’importanza basta dire che su di lui ci sono centinaia di pubblicazioni su importanti riviste scientifiche internazionali che vanno dagli anni ’50 fino a pochi anni fa. Henry è stato definito da tutti il più importante paziente nella storia delle neuroscienze. Lo stesso prof. Eric Kandel, uno dei più grandi neuroscienziati moderni, definì lo studio di Brenda Milner sul paziente H. M. come una pietra miliare nella storia delle neuroscienze moderne per capire la memoria umana e le patologie ad esse correlate.
Andiamo con ordine
La storia di Henry, noto alla ricerca come paziente H.M., incomincia nel 1935 all’età di 9 anni con un incidente ciclistico che gli procurerà delle pericolose crisi epilettiche. All’età di 27 anni è costretto ad una operazione chirurgica per ridurre le crisi epilettiche e gli svenimenti che avrebbero potuto portarlo alla morte. C’è da dire che a quel tempo non c’erano ancora dei farmaci per trattare efficacemente le crisi epilettiche e tanto meno si conoscevano le dettagliate funzioni cerebrali. A quel tempo il campo delle neuroscienze era molto rudimentale, anche se in piena crescita esponenziale. Fu il chirurgo William Scoville, dell’Hartford Hospital a rimuovere parte dei lobi temporali mediali per tentare di curarlo. In seguito all’operazione Henry perse, oltre ad una parte dei lobi temporali mediali, circa due terzi dell’ippocampo, il giro paraippocampale e l’amigdala.
Il risultato dell’operazione fu un successo dal punto di vista delle crisi epilettiche ma i 2 cm di ippocampo che rimasero si atrofizzarono velocemente a causa dell’interruzione di alcune vie nervose della corteccia entorinale. Al risveglio dall’operazione ci si rese subito conto dei nuovi problemi che Henry aveva acquisito.
Da quel 1 Settembre 1953 la sua memoria si fermò e si aprì davanti a lui un lungo ed inconsapevole calvario tra tanti medici e ricercatori che se lo contesero per anni. Henry, a distanza di decine di anni ricordava perfettamente tutta la sua storia fino all’operazione chirurgica, ricordava tutti i dettagli della sua famiglia, dei suoi problemi e della sua storia, ma era incapace di riconoscere i medici e gli amici che sono stati accanto a lui per i successivi 55 anni dopo l’incidente. Ha partecipato, senza ricordarsene, a centinaia di studi ed ha aiutato a capire tantissime caratteristiche della memoria fino ad allora del tutto inattese.
Per inquadrare meglio il periodo storico, bisogna considerare che agli inizi del 1900 il campo delle neuroscienze era pura alchimia, non c’erano colture in vitro di neuroni, niente TAC, niente NMR, niente PET etc… Non c’era modo di guardare dentro il cervello di una persona viva e tanto meno potevano essere prevedibili gli effetti di contusioni ed operazioni chirurgiche alla testa. A quel tempo, mentre Freud sviluppò la contestata psicoanalisi, i neurologi si affacciavano all’immensità del campo delle neuroscienze.
La teoria che andava per la maggiore all’inizio del secolo scorso era che la memoria fosse un’entità unica distribuita in modo uniforme in tutto il cervello, per cui si pensava che un trauma cerebrale poteva intaccare una determinata zona del cervello rendendo inaccessibile una parte della memoria passata. Da questo si poteva anche dedurre che eliminando una parte dell’encefalo si poteva rimuovere parte dei ricordi passati senza intaccare la funzionalità della memoria stessa. Non ci si deve meravigliare, quindi, se all’inizio il caso clinico di Henry fu accesamente discusso da chi pensava che fosse l’incidente traumatico che causò l’epilessia a condizionare il suo cervello oppure ad errori post-operatori. Tutti i test proposti e poi svolti su Henry dimostrarono che il paziente aveva una memoria pienamente intatta e funzionante in ogni aspetto fino al giorno dell’incidente per cui non è stata rimossa o resa inaccessibile la zona in cui la memoria vi è contenuta. Il problema mnemonico riguardava solo il meccanismo che fissa i nuovi ricordi.
Presto i ricercatori però si accorsero che il problema era molto più complesso di quanto si pensasse, sebbene il paziente non ricordava alcunché di quello che aveva fatto, era in grado di imparare nuove cose. Si sapeva, infatti che Henry andava in bicicletta quando era ragazzo e la sua memoria aveva fissato il meccanismo prima dell’incidente, quindi era normale che riuscisse a farlo anche dopo. Tuttavia alcuni medici sapevano anche che Henry non aveva mai visto il mare e tanto meno sapeva nuotare. I medici provarono ad insegnarglielo e con grande sorpresa notarono che riusciva ad imparare la nuova tecnica. Ogni giorno Henry si stupiva nel vedere una piscina per la prima volta, e sorprendentemente scopriva anche di saper già nuotare. Lo stesso succedeva per esercizi di abilità.
I risultati dimostravano chiaramente che la memoria poteva essere divisa grossolanamente in memoria a breve termine ed a lungo termine, con meccanismi indipendenti. Tuttavia, l’altra scoperta ancora più interessante é che esiste anche una ulteriore suddivisione della memoria in procedurale e cognitiva.
Le sorprese non finiscono qui, poiché mentre il mondo si chiedeva quale fosse il limite tra la memoria breve termine quella a lungo termine, e poi cercava di dare una definizione alla memoria procedurale, alcuni ricercatori scoprirono che Henry era in grado di disegnare una piantina topografica della sua abitazione. Sicuramente fu una nuova scoperta sensazionale, poiché Henry non è mai stato in quella casa prima dell’incidente. Fu coniata così anche un altro tipo di memoria, detta spaziale, che interagisce con le altre tipologie di memoria pur rimanendone separata.
Se pensate che le suddivisioni della memoria finiscano qui siete ben lontani dalla realtà, proprio pochi anni fa sono state definite 2 nuove sottocategorie. E’ stato identificato un paziente, definito C.L., che soffre di una selettiva amnesia anterograda. Il paziente C.L. è in grado di avere una discreta capacità di acquisire nuove semplici informazioni oggettive. La cosa incredibile è che la sua capacità di fissare i ricordi correlabili con il tempo o con lo spazio è praticamente nulla. Nel giro di diversi mesi, infatti, i ricercatori sono stati in grado di insegnargli nuove parole ed aumentare le sue informazioni di cultura generale, però il paziente non è riuscito a manifestare alcun progresso nel ricordare dove fosse stato e cosa fosse successo pochi minuti prima. I ricercatori hanno definito così una memoria episodica, correlata con il tempo, ed una memoria semantica, correlata con semplici informazioni indipendenti dal contesto temporale. Ancora oggi si discute sull’esistenza reale di queste sottocategorie ed i limiti per definirle.
Purtroppo è improbabile trovare un modello animale in cui studiare la memoria a questi livelli di categorizzazione, attualmente le uniche possibilità per capire queste effimere differenze sono limitate dalla scoperta di pazienti affetti da forme di particolari di amnesia e da esperti ricercatori che riescano ad identificarle. È ipotizzabile quindi che le ulteriori suddivisioni e categorizzazioni della memoria sono solo all’inizio del loro percorso,
Riprodurre il fenomeno?
Si può riprodurre l’amnesia anterograda? E’ noto che alcuni farmaci e l’intossicazione da alcool possono riprodurre l’amnesia anterograda in maniera transitoria, ma non danno un’idea chiara del meccanismo molecolare su cui si basa. Oggi si sa che i circuiti neuronali presenti nei lobi temporali mediali sono coinvolti in questa patologia, ma si sa anche che si può ottenere lo stesso deficit mediante il danneggiamento selettivo di altre aree cerebrali. C’è da aggiungere che l’interruzione dei circuiti cerebrali dei lobi temporali non causano sempre dei danni alla memoria anterograda, quindi si tratta di una condizione non necessaria e neanche sufficiente. In definitiva, nonostante gli innumerevoli studi sui circuiti di queste regioni cerebrali, il processo di memorizzazione e di recupero della memoria rimane un grande mistero. Ancora oggi, i neuropsicologi e gli scienziati discutono su quale sia il deficit responsabile dell’amnesia anterograda. Sono state poste diverse teorie: difficoltà nella codifica delle nuove informazioni per la memoria, accelerazione dell’eliminazione dei ricordi appena acquisiti, oppure mancato accesso ai ricordi recenti.
La morte
Il martedì sera del 2 dicembre 2008, Henry Gustav Molaison si spegne in una clinica quasi dimenticato nonostante il suo incredibile contributo alla medicina ed alla civiltà mondiale. Le persone a lui vicine per ricerca o per la cura ricordano Henry come la persona più gentile, paziente, e di buona volontà che avessero mai incontrato. Era sempre sorprendente quando più volte al giorno si presentasse a persone a lui vicine da più di mezzo secolo, e quando raccontava del suo presente, in cui Truman era il presidente degli USA e la televisione era una ancora una nuova invenzione.
La dottoressa Corkin, che gli é stato vicino fino agli ultimi momenti definendolo un membro della sua famiglia, ha scritto un libro intitolato “una vita senza memoria” (“A Lifetime Without Memory.” “You’d think it would be impossible to have a relationship with someone who didn’t recognize you, but I did.”).
Alla morte, il cervello di Henry é stato accuratamente analizzato e dissezionato in circa 2400 fette in diretta web, per le generazioni future. Un ultimo ed inconsapevole contributo alle neuroscienze che spero non venga dimenticato.
Conclusione
Oggi é abbastanza chiaro che esistono tanti tipi di memoria e tanti meccanismi di immagazzinamento e di recupero. Le diverse aree cerebrali ed i circuiti in esse contenuti sono coinvolti in compiti specifici ma spesso difficilmente catalogabili secondo schemi oggettivi.
Nel prossimo post vedremo perché c’è un’oggettiva difficoltà nella comprensione i questi circuiti e come questi interagiscano con la memoria stessa.
Rieccoci ancora per un’altra puntata per la divulgazione scientifica sull’ischemia cerebrale. Questo che vedremo è, in ordine cronologico, l’ultimo capitolo da me scritto ma il primo da me adattato per la pubblicazione di questa serie. Il motivo è che, a parer mio, potrebbe essere più intuitivo per le persone che non si sono mai affacciati ad un discorso scientifico impegnato. Trattasi di circa 15 anni di ricerche in questo campo seguito e presentato per lo più in ordine cronologico con qualche inesattezza o approssimazione in qualche punto per rendere il discorso quanto più scorrevole e divulgativo possibile; Vogliate scusarmi se in qualche caso ho semplificato un po’ troppo quanto si conosce realmente in letteratura.
Preambolo
Per chi non avesse seguito il percorso del nostro misterioso ‘giallo’ sull’ischemia cerebrale forse sarebbe bene leggersi i capitoli precedenti per poter seguire meglio questo ‘racconto’
Siamo nelle vesti di un improbabile investigatore molecolare con il compito di risolvere un misterioso omicidio di cellule neuronali in seguito ad ictus. Fino ad ora abbiamo cercato di ricostruire la vita dei neuroni, le ultime ore delle vittime e come si presentano agli occhi della scena del crimine. In questo capitolo, invece, cercheremo di puntare il dito sul primo imputato eccellente dell’ischemia, ovvero un fattore trascrizionale ‘particolare’. Già la sola appartenenza di una proteina alla categoria “fattore trascrizionale” conferisce quell’alone di mistero ed ambiguità tipico, infatti, è noto che queste proteine frequentano “strane compagnie”, tale che il più amabile difensore della vitalità cellulare può trasformarsi nel peggior nemico da abbattere nelle neoplasie.
Ecco a voi quanto segue.
La prima pista delle indagini
Una delle osservazioni più ovvie che mi sono state fatte nel tempo si basa sul fatto che tutto quello che si avvia durante l’ischemia cerebrale è senza alcun dubbio innescato dalla mancanza di ossigeno e nutrimento… secondo questa ipotesi ci si dovrebbe concentrare sugli eventi che sono attivati dall’ipossia e/o glucopenia per arrivare al vero meccanismo che innesca la morte neuronale ritardata. L’osservazione è ottima, e tantissimi ricercatori si sono concentrati su questa pista per trovare i responsabili.
Sicuramente uno dei target più dibattuti in questo contesto è il fattore trascrizionale che porta il nome di Hypoxia Inducible Factor (HIF), ovvero fattore indotto dall’ipossia. Ce ne sono 3, chiamati HIF-1, HIF-2 e HIF-3; di questi solo il primo è noto alla maggioranza della comunità scientifica, e sembra essere il più importante.
Quale personaggio per HIF-1?
Se dovessi associare questo fattore trascrizionale ad un personaggio di un giallo, potrebbe essere rappresentato senza alcun dubbio da un antipatico ed ambiguo individuo che attira su di sé tutti gli indizi, in modo tale che rappresenti l’assassino nell’immaginario del lettore per buona parte del racconto. In genere queste persone durante il racconto possono trovarsi alternativamente tra i principali sospetti, tra i fiancheggiatori, tra gli innocenti o tra i più improbabili difensori della verità.
Assassino, complice, arma, ancora di salvezza e persino futile perdita di energia… queste sono le definizioni che nel tempo sono state associate a questo strano fattore trascrizionale.
I Primi indizi ed il primo incontro
La pista dell’ipossia ci porta a chiedere se la scena del crimine era frequentata da fattori che sono proprio regolati da questa condizione. Da un elenco di proteine potremmo scorgere un personaggio molto influente definito HIF-1 e già qui giungiamo al primo mistero; dall’analisi della zona ischemica emerge chiaramente che HIF-1 non è presente al momento del ‘delitto neuronale’, un semplice Western Blot per l’analisi delle proteine mostra chiaramente una debolissima banda di HIF-1 ma niente di più di quello che si troverebbe in un qualsiasi tessuto in condizioni normali. Il personaggio quindi sembra non avere indizi a carico, tuttavia ci sono delle stranezze da puntualizzare.
Tiriamo fuori il nostro asso nella manica, ovvero la ricostruzione dell’avvenimento in un modello di ischemia su animale ed analizziamo la quantità di HIF-1 in diverse aree cerebrali a diversi tempi dopo l’occlusione dell’arteria cerebrale media. Dai risultati ci renderemo conto che HIF-1 non era presente prima dell’occlusione e neanche all’inizio dell’occlusione stessa, mentre è presente per pochissimo tempo durante l’ipossia neuronale per poi sparire di nuovo improvvisamente subito dopo il ripristino del circolo sanguigno.
HIF-1 dovrebbe spiegarci molte cose al riguardo sul perché c’era, cosa ha fatto e come ha fatto ad apparire e scomparire velocemente in circostanze quantomeno sospette.
Il mago Houdinì – Apparizioni e Sparizioni
HIF-1 è un fattore trascrizionale composto da due sub-unità definite HIF-1alfa e HIF-1beta, prodotti da due geni diversi molto conservati nell’evoluzione dei mammiferi. La trascrizione e la formazione di queste due proteine sono costanti ed ubiquitari in tutto l’organismo, tuttavia con un banale western blot non è possibile vedere una buona dose di proteina nei tessuti.
Il perché è subito chiarito dal suo scopritore Gregg Semenza, che ha dimostrato come in condizioni di ossigenazione ‘normale’ HIF-1alfa è idrossilato attraverso un enzima e poi processato per la degradazione… in poche parole HIF-1alfa è continuamente prodotto ma è anche degradato subito dopo in presenza di ossigeno molecolare. Infatti, quando l’ossigeno comincia a mancare HIF-1alfa non si può più degradare e si accumula legandosi al suo cofattore HIF-1beta formando il fattore trascrizionale completo HIF-1 che va ad attivare una serie di geni target. In seguito alla riossigenazione HIF-1alfa è nuovamente degradato ed il complesso HIF-1 non si forma più.
Ecco così spiegato il mistero della sparizione ed apparizione di HIF-1 durante l’ischemia cerebrale.
Conosci gli amici che frequenti e saprai chi sei
La domanda più interessante a questo punto è “quali geni target attiva HIF-1?”. Bhé ce ne sono centinaia, e sono divisi in classi secondo il meccanismo globale a cui afferiscono.
Troviamo geni del metabolismo anaerobico del glucosio, ovvero quegli enzimi che servono per ottenere energia dal glucosio senza la necessità di ossigeno, troviamo anche geni che servono per aumentare l’ossigenazione in una certa regione del tessuto come ad esempio VEGF il fattore che induce la vascolarizzazione in loco per apportare più ossigeno e nutrienti. Tra i target c’è anche l’eritropoietina che aumenta la produzione di globuli rossi che portano l’ossigeno in tutto l’organismo.
Poi ci sono geni un po’ più strani che mirano comunque alla sopravvivenza della cellula in condizioni anaerobiche e geni di cui non si sa bene la funzione nell’ipossia.
Tutto sommato è un ‘buono’ e serve alle cellule per ‘adattarsi’ alle scarse riserve di ossigeno e soprattutto promuovere il rimodellamento dell’organismo per avere più ossigeno.
Buono?
C’è anche l’altra faccia della medaglia, come per ogni fattore trascrizionale. L’altra faccia della ‘Janus Face’ HIF-1 è che se passa ‘dall’altra parte’ favorisce la vascolarizzazione di neoplasie (tumori) rendendolo più maligno e più resistente alle terapie antineoplastiche. Non a caso le mutazioni dei geni che servono per degradare HIF-1 in presenza di ossigeno siano dei noti oncogeni, ovvero geni cruciali che favoriscono la formazione e l’accrescimento dei tumori quando non funzionano a dovere.
Cosa ci faceva HIF-1 durante l’ischemia?
Bene dopo questa velocissima presentazione di questo angelo o diavolo è ora di chiedersi cosa stava facendo subito dopo l’occlusione dell’arteria cerebrale e proprio in quei neuroni che moriranno diverse ore dopo… Stava avvelenando il loro futuro o stava costituendo un disperato tentativo di salvataggio?
Se provate a chiedere a HIF-1 cosa stesse facendo la risposta è ovvia, stava promovendo la sintesi di geni del metabolismo anaerobico per consentire ai neuroni di far fronte all’immediata assenza di ossigeno.
Facendo una Cromatin Immunoprecipitation (ChIP), ovvero una tecnica che ci permette di determinare se un fattore trascrizionale è legato o no ad una determinata regione genomica, c’è un primo riscontro positivo, effettivamente HIF-1 si trovava nelle posizioni di attivazione dei geni che servono per il metabolismo anaerobico.
Però c’è un’incongruenza, il tempo necessario ad HIF-1 per attivare i geni del metabolismo è costituito almeno da diverse ore; ovvero il tempo necessario per aumentare la sintesi di mRNA e di proteine. HIF-1, invece, rimane legato ai geni descritti per pochissimo tempo, al massimo un’ora o anche molto meno, un tempo che non basterebbe neanche a reclutare tutti i cofattori necessari per l’attivazione della trascrizione genica… come mai?
HIF-1 si difende esponendo i propri fatti… ovvero si trovava lì al momento dell’ipossia, aveva visto che ‘la nave stava affondando nell’ipossia’ e quindi si è attivato quanto prima come da suo dovere, poi è subentrata la riossigenazione dell’area cerebrale che lui non poteva prevedere ed è stato degradato dall’ossigeno prima che potesse fare effettivamente qualcosa. Per cui in realtà si tratterebbe di un tentativo andato a vuoto.
Dall’analisi per RT-PCR, tecnica che permette di determinare l’aumento o la diminuzione dell’espressione di determinati geni, c’è una prima conferma dell’alibi di HIF-1. Effettivamente stavano aumentando, seppur di poco, la sintesi dei geni implicati nel metabolismo anaerobico, del tutto sovrapponibile con quello che ci si aspetterebbe dall’azione esplicata da HIF-1.
Innocente allora?
Prima di prosciogliere l’imputato io suggerirei di analizzare anche chi ha frequentato HIF-1 in quella notte misteriosa dove è avvenuta l’ipossia. C’erano altri geni che ha indotto HIF-1?
Un gene molto importante è VEGF come già accennato, implicato nell’induzione della vascolarizzazione a lungo termine, ma che ha anche un’azione neuroprotettiva acuta nei confronti dell’ischemia cerebrale. Poi ci sono l’eritropoietina, che serve per aumentare i globuli rossi nel sangue, anch’esso neuroprotettivo in fase acuta, e tanti altri geni più o meno noti per avere un’azione neuroprotettiva. Un eroe dunque.
Il lato oscuro di HIF-1
C’è però anche chi fa notare che i fattori trascrizionali in condizioni non fisiologiche come l’ischemia cerebrale possono frequentare anche ‘compagnie diverse’ ed insolite da quelle catalogate. Infatti, da alcuni esperimenti di Microarray, tecnica che permette di vedere l’aumento o la diminuzione dell’espressione di un ampio numero di geni in condizioni fisiologiche rispetto a quelle patologiche, è emerso che HIF-1 ha scarsamente indotto geni neuroprotettivi, come già descritto, però durante la sua attivazione sono aumentati enormemente anche tanti geni di ‘malaffare’.
Insomma tanto basta per iniziare il processo contro questo ‘strano individuo’
Che il processo abbia inizio… entri il primo imputato HIF-1
La parola all’accusa
Quei pochi minuti che bastano
Sebbene siano necessarie diverse ore per attivare i geni del metabolismo anaerobico, per HIF-1 sono stati necessari pochi minuti per attivare alcuni dei geni più distruttivi dell’ischemia. E non si tratta di una piccolo aumento di espressione. Il gene in questione è la nitrossido sintetasi inducibile che produce radicali liberi sottoforma di gas nitrossido con un’azione neurotossica letale per i neuroni. Da un’analisi con Decoy, ovvero la somministrazione di piccoli tratti di DNA a doppio filamento che simulano il sito di legame di HIF-1 e lo sequestrano lontano dai geni bersaglio, è stato possibile determinare con certezza che HIF-1 è il principale responsabile dell’aumento della trascrizione della iNOS. Quando ad una cellula ipossica si dà il Decoy, HIF-1 lo lega e non riesce a raggiungere il gene bersaglio, un effetto simile ad un knock-out genico. La iNOS è nota per causare la morte cellulare dei neuroni, una questione indubbia.
Ma come è possibile che ad HIF-1 bastino pochi minuti per l’attivazione di iNOS mentre sono necessarie ore per i geni neuroprotettivi? Greeg Semenza è riuscito a chiarire anche questo altro aspetto. HIF-1, infatti, è prodotto continuamente dalla cellula, ed è anche degradato continuamente, ma una piccola quota di HIF-1 è presente nelle cellule, visibile per western blot, e basta per legare ed indurre determinati geni insoliti. Talvolta li lega anche quando non c’è ipossia ed attende la mancanza di ossigeno così per trovarsi già in loco quando serve.
Insomma HIF-1 è stato visto aumentare e fomentare geni per la degenerazione neuronale, mentre i geni neuroprotettivi non erano stati trattati allo stesso modo, dando solo un’apparenza di eroe salvatore.
A carico di HIF-1 c’è anche la precisione di espressione proprio nei neuroni e nei luoghi dove ci sarà, diverse ore la sua scomparsa, la maggior percentuale di neuroni morti. Una coincidenza forse?
Insomma, la situazione si è messa male per HIF-1, le prove vanno decisamente contro; il legame degli enzimi metabolici e neuroprotettivi potrebbe essere solo una copertura per il vero scopo, ovvero la degenerazione dei neuroni?
La parola alla difesa
La difesa tira fuori il dogma scientifico
Il Dogma scientifico
Per chi non lo sapesse, esiste un dogma per ogni disciplina culturale umana e la biologia non ne è immune. Il Dogma dei biologi è che niente succede a caso, poiché per ogni gene o proteina ci sono milioni di anni di evoluzione che raffina tutti i meccanismi a quelli fondamentali per la sopravvivenza e per l’evoluzione. Se ci fosse qualcosa di inutile o peggiorativo sarebbe eliminato automaticamente dall’evoluzione stessa. Per cui la selezione e la conservazione di un fattore indotto dall’ipossia che causi morte nei neuroni non è credibile poiché non darebbe un vantaggio per la sopravvivenza.
Dopotutto quello che si vede è una sommatoria di tantissimi meccanismi che interagiscono tra di loro e quello che si osserva è solo la summa del tutto da cui è difficile estrapolare un singolo messaggio. Meglio ricorrere all’incidente probatorio…
Ovvero spegniamo HIF-1 con un knock-out genico ed induciamo l’ischemia, verifichiamo in questo caso se l’animale che manca di questo fattore è più o meno esposto al danno neuronale rispetto agli animali wild-type.
L’incidente probatorio o la prova del nove
La prova più importante seguita da quella definitiva molto spesso è la generazione di un topo knock-out per il gene di interesse. Ci sono stati tantissimi esempi di questo tipo, vale sia come inizio di una ricerca per capire grossolanamente un gene di cosa sia responsabile e vale anche come prova raffinata per avere la prova definitiva che un determinato gene sia coinvolto in un certo meccanismo.
Purtroppo nonostante intensi sforzi per ottenere topi knock-out per HIF-1alfa, è emerso che un animale privato di questo gene non riesce a svilupparsi ed a sopravvivere ai primi stadi embrionali, anche se è esposto ad un normale livello di ossigenazione. Ovviamente questo è stato il motivo dei ritardi nel fare un topo transgenico e quindi definire una prova evidente del suo ruolo in tanti processi fisiologici e patologici.
Tuttavia, recentemente è stato possibile generare un topo con un knock-out tessuto specifico di HIF-1alfa per i neuroni, il risultato è stato quantomeno sorprendente… l’assenza di HIF-1alfa durante l’ischemia cerebrale ha enormemente potenziato i danni neuronali.
Un fulmine a ciel sereno per tutti… L’imputato è senza dubbio da scagionare e da mettere tra i difensori cellulari.
Conclusioni
In questo capitolo abbiamo visto un esempio di imputato eccellente dell’ischemia cerebrale che ancora oggi per alcuni gruppi di ricerca rappresenta ancora il centro dell’attenzione. Gli studi andranno sicuramente avanti, anche se non ci si aspetterebbe ancora molto da quanto descritto, HIF-1alfa nel processo dell’ischemia cerebrale si potrebbe definire almeno non pericoloso tanto quanto altri imputati eccellenti che vedremo nelle prossime puntate. Per questi motivi l’attenzione su questo fattore trascrizionale si è concentrato soprattutto sulle neoplasie, ed ha tralasciato progressivamente l’ischemia cerebrale, renale e cardiaca. Vedremo se qualcuno in futuro troverà qualche prova rilevante per riaprire nuovamente il processo. In attesa di tale data ci rivedremo nella prossima puntata dove vedremo un altro imputato importante.
recentemente mi è capitato di incontrare una patologia rara, che ignoravo fino a poco tempo fa, e che ha innescato in me pensieri e teorie contrastanti a cui non saprei dare un giusto ordine.
Per capirci, come al solito, c’è bisogno di fare un po’ d’ordine nel linguaggio. Il punto d’origine dei nostri assi cartesianiverbali in questo post sarà la parola ‘Normale’ che identifica, senza ombra di dubbio, una qualsiasi caratteristica che si presenta nella quasi totalità della popolazione. Da questo ‘punto zero’ potremmo allontanarci definendo un maggiore o minore grado di ‘anormalità’. Si potrebbe persino tracciare un asse con una direzione per ‘anormalità buone’ e ‘cattive’ e deporre in queste due zone tutte le possibili caratteristiche che ci fanno allontanare dalla normalità. Questa semplificazione, purtroppo, ci porta ad un limite, cioè per quanto ci potremmo sforzare alcune ‘anormalità’ potrebbero essere difficili da sistemare. Per intenderci, tutti noi saremmo certamente lieti di essere ‘anormalmente intelligenti e forti’, molto meno per ‘anormalmente bassi e brutti’. Tuttavia, alcune di queste certezze sarebbero perse quando dovremmo ipoteticamente posizionare in questo contesto la sindrome di Asperger.
Cosa è la Sindrome di Asperger?
Cosa è la Sindrome di Asperger?
Si potrebbe definire come un innato disordine del comportamento, ma è difficile avere una definizione di questa patologia in due parole, forse potrebbe essere meglio considerata semplicemente come un insieme di sintomi con una maggiore o minore gravità.
Se vi dicessi che alcuni studiosi pensano che Michelangelo, Wittgenstein, Kurt Gödel, Glenn Gould, Bobby Fischer, Satoshi Tajiri, The Vines Craig Nicholls, Albert Einstein e Isaac Newton soffrissero in qualche misura di questa ‘sindrome anormale’ e che proprio questa caratteristica donasse loro un qualcosa in più rispetto alla ‘normalità’?
Se tutto questo fosse vero, lo stesso concetto di ‘malattia’ o ‘sindrome’ si rivaluterebbe in qualcosa di assolutamente meraviglioso, anzi molti si precipiterebbero ad informarsi su come potersi ‘ammalare’ di questa ‘anormalità’.
L’anormalità è quindi positiva? Come ho già accennato non si tratta di una cosa semplice, poiché la malattia in questione è la sindrome di Asperger, un disordine psicologico che secondo alcuni appartiene alle mille sfaccettature dell’autismo. Già il concetto di autismo è di difficile comprensione, e la sindrome di Asperger sembra esserne una ulteriore complicazione, poiché prende alcune delle peggiori caratteristiche dell’autismo con le più belle caratteristiche che l’umanità possa desiderare in una complessa macchina psicologica completamente impenetrabile ad una semplice analisi.
Vi prego di non immaginare che le persone affette da questa ‘anormalità’ appaiono chiuse e taciturne come Dustin Hoffman in Rain Man; tutt’altro, la loro facilità di linguaggio è tale da poter essere definiti “iperlessici”. Si può dire anche che hanno un raro e sviluppato senso dell’umorismo, con un’abilità non comune per capire e creare doppi sensi, giochi linguistici, satira ed altro. Le persone con la sindrome di Asperger, inoltre, appaiono come delle persone molto intelligenti ed in molti casi dei veri e propri geni. Sono immersi nella società e spesso fanno dei lavori molto impegnativi e che richiedono una particolare intelligenza, cultura o concentrazione; ad esempio architettura, ingegneria, programmazione informatica e persino la chirurgia medica. Persone abbastanza ‘normali’ per trovarsi immersi nella società, ma abbastanza speciali per non essere classificati come persone mediocri anche se spesso non si rendono conto di essere così speciali.
I soggetti ‘malati’ della sindrome di Asperger sono spesso attratti, con un intenso livello di attenzione, solo da determinate cose che interessano loro e da attività in cui si possa ritrovare un certo ordine come le classificazioni, liste e simili.
L’individuo può portare avanti anche una vita di successo, poiché spesso manifesta ragionamenti estremamente sofisticati, un’attenzione pressoché ossessiva e una memoria eidetica, ovvero focalizzata sulle immagini visuali e sui dettagli, utile ad esempio nella chirurgia.
Ma allora cos’è che manca? Perché si definisce come sindrome?
L’altra faccia della medaglia
Ovviamente tutto ha un prezzo, e queste persone pagano un prezzo altissimo per queste straordinarie ‘anormalità’. Quello che manca a loro è un’innata abilità di capire ed esprimere gli stati emotivi con gesti, linguaggio corporeo ed espressione facciale.
Le persone affette da sindrome di Asperger, sebbene non manchino di intelligenza e capacità linguistiche, appaiono incapaci di comprendere il significato di semplici segnali come un sorriso, che magari può essere interpretato come una semplice smorfia più che un segno di gradimento. Mancano, inoltre, dell’abilità di capire ciò che non viene detto esplicitamente ed in pari modo essi hanno difficoltà a comunicare con accuratezza il loro proprio stato emotivo.
Mentre la maggioranza delle persone al mondo si trova più o meno nella media per qualunque caratteristica fisica o psichica e di conseguenza non brilla per nessuna di queste, i bambini affetti da questa strana sindrome, invece, brillano come ‘piccoli professori’ in materie a loro piacevoli da studiare e spesso potrebbero mettere in difficoltà anche persone di livello universitario su determinati argomenti per cultura, profondità di pensiero e spiccato senso critico. Tutta questa straordinaria capacità di concentrazione, intelligenza, genialità, cultura, passione per lo studio e per la ricerca, però, è impotente di fronte alla capacità di percepire gli stati mentali degli altri a livello cognitivo ed emotivo. Le persone con la sindrome di Asperger possono osservare un sorriso e non capire se si tratti di un segno di comprensione, di accondiscendenza o di malizia, e nei casi più gravi non riescono neppure a distinguere la differenza tra sorriso, ammiccamento e altre espressioni non-verbali di comunicazione interpersonale. Per loro è estremamente difficile saper “leggere attraverso le righe”, ovvero capire quello che una persona afferma implicitamente senza dirlo direttamente.
Bisogna comunque notare che, trattandosi di un disturbo con ampio spettro di variazione, una certa percentuale di individui con la sindrome di Asperger appaiono quasi normali nella loro capacità di leggere le espressioni facciali e le intenzioni degli altri. Molti di questi inconsapevoli geni, infatti, non sanno neanche di essere affetto da una forma lieve di questa patologia, mentre altri più gravi mostrano difficoltà anche nel guardare negli occhi le altre persone, ritenendolo pericoloso e al di sopra delle proprie possibilità, oppure hanno un contatto visivo eccessivamente fisso, che può essere avvertito come “disturbante” per le persone comuni.
Genialità: Croce e Delizia
Bisogna parlare anche della parte più oscura della sindrome di Asperger che come avrete intuito non dà quello che si potrebbe definire una vita tutta rose e fiori. Spesso può portare al soggetto molti problemi nelle interazioni sociali tra persone di pari livello. Un bambino affetto da tale sindrome, ad esempio, ha difficoltà a decodificare i segnali impliciti su cui si reggono le interazioni sociali e può essere messo da parte dai coetanei, generando un’alienazione sociale talmente intensa che il bambino può arrivare a creare degli amici immaginari per sentirsi in compagnia.
I problemi proseguono anche nella vita adulta, molti individui con la sindrome di Asperger, infatti, non possono avere una vita considerata socialmente appagante dalla gente comune, molti infatti rimangono pressoché soli, anche se è possibile che stringano strette relazioni con alcuni individui.
Stiamo trattando di una patologia con un diverso grado di severità, quindi si troveranno anche molte persone, che soffrendo di questo disturbo, si sono sposate e hanno avuto figli; i loro bambini possono essere persone comuni o soffrire di qualche disturbo di tipo autistico.
Tutt’oggi la causa della sindrome di Asperger non è ancora nota, anche se si sa che c’è una forte influenza genetica e non ci sono differenze neurologiche confrontati ai soggetti così detti ‘normali’.
I soggetti non hanno avuto alcun trauma evidente da piccoli, non sviluppano un ritardo nel parlare e non manca il desiderio di comunicare con l’esterno.
Tutto sommato le persone con la sindrome di Asperger sono vittime inconsapevoli dei lati oscuri della genialità, sono più facili a cadere in una forma depressiva rispetto alla popolazione generale perché essi hanno spesso difficoltà a comunicare problemi o capire quando è il momento di mostrare affetto. Amano come gli individui ‘normali’, e forse di più perché spesso sono soli, ma sono molto letterali nel parlare e hanno difficoltà nel comunicare in maniera emozionale, e frequentemente possono instillare nella propria compagna insicurezza e confusione.
Riflessioni
Malattia quindi? o dono divino? Un fardello, appesantito dalla solitudine, da portare sulle spalle o semplici effetti collaterali della genialità?
Sicuramente le persone con la sindrome di Asperger non si potrebbero definire come semplici pazienti da ‘curare’, ma persone con grandi doti di intelligenza che possono contribuire attivamente allo sviluppo della società e della civiltà, come è già successo in passato. Il trattamento per la sindrome di Asperger, quindi, non c’è, ma attualmente si cerca di migliorare gli effetti collaterali che questi sintomi possono procurare. Poiché in fondo, spesso sono persone che hanno solo bisogno di essere accettati per le proprie caratteristiche. Come un non vedente che vuole dalla società un mondo più accessibile per non esserne escluso… allo stesso modo c’è chi non legge le espressioni degli altri e vorrebbe la stessa cosa. Immaginate chi si dovrebbe definire portatore di handicap… Un genio che ‘non vede’ le espressioni del viso? Oppure le persone ‘normali’ che hanno un intelletto più limitato?
Forse in questo caso la definizione ‘diversamente abile’ sarebbe più azzeccata che mai.
Siete bravi in matematica? Se la risposta è sì, forse può dipendere dal fatto che abbiate una buona capacità matematica istintiva, non formale. Insomma, che avete un buon “sesto senso” per approssimare le quantità. Questa la tesi proposta da Halberda e colleghi in un loro recente articolo, apparso su Nature.Potete trovare il testo originale qui (richiesto abbonamento alla rivista): “Individual differences in non-verbal number acuity correlate with maths achievement”
Lo studio ha comparato l’abilità matematica formale di 64 ragazzi di 14 anni con la loro abilità istintiva, ovvero il loro approximate number system (ANS) o sistema di conto approssimativo.
Per misurare questo indice i ricercatori hanno utilizzato un semplice test: ai ragazzi veniva presentata una schermata con un certo numero di pallini gialli e blu di diversa dimensione per un tempo di 200 ms, troppo breve per permettere un effettivo conteggio. A questo punto il soggetto doveva dire quali cerchi fossero più numerosi: quelli gialli o quelli blu. Ovviamente la disposizione e la quantità dei cerchi erano casuali, in modo da escludere un effetto della posizione. Un test molto semplice, che permette di valutare l’abilità istintiva a contare, che non necessita di alcuna abilità formale di matematica (es. non è necessario saper risolvere un’equazione per riuscire in questo test).
Come facilmente immaginabile, la percentuale di risposte giuste è correlata al rapporto fra il numero dei due gruppi: ad esempio, è più facile dare la risposta giusta avendo 10 cerchi blu e 5 gialli, che avendone 8 gialli e 9 blu. Questo fenomeno è noto come legge di Weber. La risposta dei singoli soggetti, tuttavia è stata estremamente variabile: alcuni soggetti sono stati in grado di misurare accuratamente quantità in rapporto 9:10 (es. 9 blu e 10 gialli), altri facevano fatica a discriminare rapporti più fini di 2:3 (es. 10 blu e 15 gialli).
La domanda che i ricercatori si sono posti è la seguente: può la capacità istintiva di contare essere la base di buoni risultati nella matematica formale? I ragazzi scelti per il test erano stati valutati nel corso degli anni scolastici precedenti per le loro capacità matematiche formali usando test matematici standardizzati. Il confronto fra i risultati di questi studi ha in effetti mostrato che la capacità matematica formale è correlata al livello di ANS. Il confronto con i risultati di altri 16 diversi test fatti sugli stessi soggetti, per valutare le loro abilità cognitive e comportamentali più “generali”, non hanno mostrato alcuna correlazione con il livello di ANS.
Gli autori concludono che poichè l’ANS è attivo durante l’infanzia, esso possa essere importante per lo sviluppo delle abilità cognitive. Alternativamente, la situazione potrebbe essere invertita: una maggiore quantità o qualità dell’insegnamento della matematica formale potrebbe infatti aumentare l’indice di ANS.
Questa ipotesi alternativa potrebbe spiegare differenze nell’acuità dell’ANS in popolazioni di adulti che hanno ricevuto un’educazione matematica migliore di altre.
Se volete testare la vostra capacità matematica informale, potete trovare un test a questo indirizzo. Per avere un risultato “valido” ripetete il test almeno 25-30 volte. Io ho ottenuto un fantastico 89%! E voi?
Rieccoci qua dopo un po’ di tempo di “meditazione lavorativa”, spero di recuperare i post di Nico, poiché sto un po’ indietro.
Allora, per ricominciare vorrei trattare un argomento che ha anche un importante risvolto filosofico che spero possa interessare anche ai “non addetti ai lavori”. Dovete sapere che quando ho iniziato a scrivere l’argomento qui di seguito ho scritto talmente tanto che mi sono subito reso conto che potrebbe essere un po’ troppo lungo e barboso per essere digerito in una sola volta. Di conseguenza ho deciso di farne un argomento a brevi “puntate”, spero che questo sistema vi sarà gradito maggiormente.
Se vi sono commenti vi prego di farmene partecipe.
Per introdurre questo lungo argomento definirò prima il termine “ischemia“. La parola deriva dal Greco ισχαιμία, ovvero isch (riduzione) ed haima (sangue) e sottintende un apporto di sangue insufficiente per soddisfare le richieste energetiche di un determinato distretto dell’organismo. Ovviamente, la mancanza di nutrienti e di ossigeno porta prima alla sofferenza cellulare e poi, se è prolungata, determina la morte dei tessuti circostanti. L’estensione, inteso come volume, e l’entità del danno, inteso come percentuale di cellule morte, dipendono dal tipo cellulare coinvolto e dalla differenza tra la richiesta energetica e l’energia effettivamente fornita.
Il termine ischemia è riferibile a qualsiasi zona dell’organismo; per cui si può parlare di ischemia cardiaca, renale, muscolare, cerebrale etc. Ognuno di questi organi ha caratteristiche diverse, e di conseguenza sono più o meno sensibili al danno ischemico.
Con il termineictus (dal latino “colpo”) si intende specificamente l’ischemia che riguarda il cervello. Questa patologia è la prima causa di invalidità permanente e la terza causa di morte nei Paesi industrializzati. I recenti progressi medico-scientifici hanno portato a dei miglioramenti nella gestione dei pazienti ischemici come la diagnosi precoce, la trombolisi, la creazione di centri per lo stroke e la riabilitazione. Tuttavia, l’ictus oggi rappresenta ancora un problema medico senza un’efficace terapia. Stranamente, nonostante i numerosi studi sull’argomento in questione l’ischemia cerebrale è ancora una patologia con molti lati oscuri da chiarire.
L’ictus, infatti, presenta diverse caratteristiche anomale che lo contraddistinguano dagli altri tipi di ischemia. La caratteristica più evidente è che la morte dei neuroni non avviene quando c’è la carenza di carburante ed ossigeno, ma diverse ore fino a giorni dopo il ristabilirsi del normale flusso sanguigno. Si può affermare quindi che la morte neuronale non è causata direttamente della semplice mancanza di cibo ed ossigeno, ma per complessi meccanismi che sono scaturiti da questa mancanza. Questa caratteristica rende l’ischemia cerebrale una sezione medica di notevole interesse scientifico poiché è una patologia molto grave e diffusa, con un periodo di possibile intervento (finestra terapeutica) abbastanza ampia. Il tempo che intercorre tra l’ictus ed il raggiungimento del massimo danno cerebrale è abbastanza lungo per un tempestivo intervento farmacologico sul paziente. Purtroppo le attuali terapie mirano a fenomeni macroscopici come ripristinare il flusso sanguigno mediante agenti anticoagulanti che rompono il coagulo che ha occluso un’arteria. Queste terapie sono utili solo se sono effettuate entro 2-3 ore dall’inizio dei sintomi ed hanno scarsa efficacia. Secondo molti la “vera terapia” dovrebbe mirare a bloccare quei sistemi cellulari che portano una determinata cellula, apparentemente non sofferente, a morire dopo giorni dall’evento ischemico. Per questo motivo è in corso da tempo la caratterizzazione di questi complicati meccanismi cellulari per la ricerca di efficaci bersagli farmacologici che siano in grado fermare questo percorso neurodegenerativo ritardato. Sin dai primi risultati delle ricerche svolte è emerso che uno dei punti chiave della neurodegenearazione è lo ione calcio e la fine regolazione delle sue concentrazioni intracellulari ed extracellulari.
Il Calcio: la “Spada di Damocle” dell’ischemia
Il Calcio (Ca2+) è un componente essenziale per la vita; questo ione infatti oltre ad essere un componente fondamentale per le ossa, è usato anche come un importante segnale cellulare per innescare migliaia di processi fisiologici che vanno dalla contrazione cellulare, come nel caso delle cellule cardiache e muscolari, fino all’impulso nervoso di ogni singolo neurone del cervello.
Pensate che la concentrazione di calcio presente all’interno di una qualsiasi cellula del nostro organismo a riposo è estremamente bassa (50-100 nanoMolare), praticamente meno della concentrazione di calcio che si ha nella semplice acqua distillata! All’esterno delle cellule, invece, c’è una concentrazione di calcio di circa 10.000 volte superiore che è separata dall’interno delle cellule da un doppio strato lipidico sottilissimo. Questa differenza di concentrazione è fondamentale, poiché basta anche un lieve incremento dei livelli di calcio intracellulari per innescare in base al tipo di cellule interessate: l’apertura di canali, fusioni di vescicole, contrazioni cellulari, depolarizzazioni nervose, rilascio di neurotrasmettitori e/o ormoni. Una cellula neuronale, durante la sia attività, può passare per brevi istanti da concentrazioni di calcio di 50-100 nanoMolare fino a 1 milliMolare (1.000 volte di più) per poi ritornare ai livelli basali e prepararsi per essere stimolata nuovamente.
Potete immaginare che mantenere bassa la concentrazione di calcio all’interno delle cellule richiede molti sforzi energetici che consumano ATP, la molecola che conserva l’energia cellulare. Immaginate ora cosa può accadere quando manca il sangue in un determinato distretto del cervello; la mancanza di ossigeno e nutrimenti non consentirebbero alle cellule di produrre energia sottoforma di ATP e di conseguenza comincerebbero ad essere meno efficienti tutti i meccanismi che servono a mantenere basse le concentrazioni cellulari di Calcio. In definitiva, durante l’ischemia, i neuroni non riescono più a cacciare fuori il calcio che entra durante la propria attività, di conseguenza anche le funzioni fondamentali sono compromesse ed inizia la lunga agonia che porterà alla morte cellulare.
Il Calcio, quindi, è una spada di Damocle che pende su tutte le cellule che ne fanno uso; l’ingresso di calcio è fondamentale per attivare la maggior parte dei meccanismi cellulari, ma quando un neurone non c’è l’energia necessaria per estruderlo per ritornare nuovamente alle condizioni basali, le concentrazioni citoplasmatiche di questo ione aumentano e di conseguenza si innescano, in maniera incontrollabile, una serie di meccanismi non desiderati con un ulteriore dispendio energetico.
A complicare le cose c’è la fitta rete di contatti che i neuroni hanno tra di essi e con l’organismo. L’accumulo di calcio in un neurone provoca un’attivazione incontrollabile con il rilascio di neurotrasmettitori eccitatori verso altri neuroni, che a loro volta si attiveranno facendo entrare ioni calcio che non riusciranno ad estrudere. La reazione a catena potrebbe continuare all’infinito in tutto il cervello causando la generazione di scariche elettriche senza controllo che si propagano longitudinalmente rispetto il centro dell’infarto cerebrale (core ischemico) con liberazione di neurotrasmettitori e conseguenze che vedremo nelle prossime puntate.
Il calcio quindi è uno ione fondamentale per la vita perché è il centro di regolazione di funzioni cellulari importanti. Tuttavia proprio per questo motivo è anche uno ione molto pericoloso perché in condizioni patologiche, come l’ictus per l’appunto, può innescare l’autodistruzione cellulare. Un articolo pubblicato su Journal of Neuroscience descrive l’importanza di alcuni meccanismi; per chi è interessato
Durukan and Tatlisumak Pharmacology, Biochemistry and Behavior 87 (2007) 179-197.
Finalmente torno a scrivere sul blog dopo un periodo di latitanza (mi scuso con tutti i lettori, ma sono stato assorbito dalla scrittura della tesi…).
Oggi vi voglio parlare di un argomento un po’ particolare: la sinestesia. No, non sto parlando della figura retorica…. bensì del fenomeno per cui alcune persone associano determinati stimoli sensoriali associati ad un senso differente.
Il tipo di sinestesia più comune è la sinestesia associata ai grafemi. Un sinesteta associa ad un certo grafema (es. la lettera “A” o il numero “7″) un certo colore. Ad esempio la “A” potrebbe essere associata al rosso: alcune persone vedono effettivamente le lettere colorate, altri creano un’associazione nella loro mente, ma riescono comunque a definire il “vero” colore della lettera. Altri tipi di sinestesia più rari coinvolgono, ad esempio, il gusto: in questo caso la persona percepisce una certa sensazione gustativa quando pronuncia una determinata parola.
L’articolo presenta un’analisi di un caso di sinestesia grafema->colore, in cui il soggetto vede lettere o numeri di un certo colore, anche se sono scritti effettivamente in nero. Uno degli esperimenti consiste nell’identificare un 2 in una figura (generata casualmente dal computer) piena di 5. Il tutto è scritto in bianco su nero, ma il sinesteta ha tempi di risposta più bassi di non-sinesteti a cui viene proposto lo stesso task in quanto per lui il 2 è arancione ed i 5 sono azzurri. Se però la stessa cosa viene fatta con 6 ed 8 che lui vede entrambi in blu, oppure con simboli che non rappresentano una lettera o un numero, i tempi di risposta non sono differenti da quelli dei non-sinesteti.
Un famoso test per individuare sinesteti grafema->colore è l’utilizzo dell’effetto Stroop. Un esempio di questo effetto è il seguente:
dite ad alta voce, ed il più velocemente possibile i colori di queste parole
RossoBluVerdeGialloNeroBlu
ora fate lo stesso con queste
BluGiallo Blu VerdeRossoRossoBlu
L’effetto Stroop è l’effetto per cui è più difficile dire i colori della seconda serie di parole rispetto alla prima, in quanto nel nostro cervello c’è un’interferenza fra il significato della parola e la percezione della parola stessa. Se ad un sinesteta che vede il numero 6 in rosso viene fatto lo stesso test chiedendogli di dire il colore di questi due numeri:
66
la performance nel nominare il colore del secondo sarà più bassa che per il primo.
Il primo report pubblicato di questo fenomeno risale a fine ’800 quando Francis Galton pubblicava su The Journal of the Anthropological Institute of Great Britain and Ireland l’articolo (molto interessante, consiglio di leggerlo) “Visualised numerals“. Le esatte cause di questo fenomeno non sono note, ma sembra che derivi dal fatto che alcune aree della corteccia cerebrale deputate alla percezione di diversi sensi siano collegate in maniera “non corretta“. La sinestesia ha anche una componente genetica ed è infatti una condizione presente in più individui nella stessa famiglia.
A tutti noi è capitato di dover imparare a fare qualcosa: come è noto uno dei modi migliori è iniziare guardando qualcun altro che fa ciò che vogliamo imparare. Che si tratti di suonare uno strumento, usare un macchinario in laboratorio oimparare a parlare, infatti, l’imitazione gioca sicuramente un ruolo importante nel nostro processo di apprendimento. Ma come funziona esattamente tutto ciò? Abbiamo già detto in post precedenti (ad es. questo e questo) che il nostro cervello memorizza ed impara attraverso il rafforzamento di alcune sinapsi e l’indebolimento di altre… ma come entra l’imitazione in questo sistema?
Purtroppo non vi posso dare una risposta completa, ma vi posso raccontare almeno parte della storia.
Un macaco neonato imita un ricercatore che tira fuori la lingua!
(da Evolution of Neonatal Imitation. Gross L, PLoS Biology Vol. 4/9/2006, e311)
Tutto cominciò circa una decina di anni fa con gli studi di Giacomo Rizzolatti e colleghi all’università di Parma, i quali stavano studiando l’attività dei neuroni della corteccia premotoria del macaco, una regione coinvolta nella pianificazione delle azioni e nella decisione di quali atti compiere (da cui il nome premotoria). Ad esempio, alcuni neuroni di questa regione potrebbero venire attivati quando il macaco prende un pezzo di cibo da un piatto per metterlo in bocca, altri potrebbero essere attivati quando invece si arrampica su di un albero.
Durante i loro studi, Rizzolatti e colleghi scoprirono l’esistenza di una sottopopolazione (10-20%) di questi neuroni, i quali vengono attivati sia quando l’animale fa una certa azione (es. prende una banana), sia quando vede un altro animale fare la stessa azione. Questi neuroni furono chiamati mirror neurons o neuroni specchio e sembrano essere degli ottimi candidati per spiegare questi processi di apprendimento per imitazione.
La precisione di questi neuroni è notevole: ad esempio, un certo neurone che veniva attivato quando la scimmia prendeva il cibo, veniva anche attivato quando vedeva il ricercatore prendere il cibo. Se però quest ultimo usava delle pinze per prendere il cibo l’attivazione era molto minore, e praticamente nulla se faceva il gesto di prendere qualcosa, ma senza che effettivamente ci fosse del cibo.
Da allora, molti studi sono stati fatti nel campo dei neuroni mirror che sono stati trovati anche nell’uomo e in alcune specie di uccelli (come vedremo nella seconda parte di questo post).
In particolare sembra che questi neuroni siano molto importanti nei processi di apprendimento del linguaggio e altri studi hanno suggerito che un loro malfunzionamento potrebbe essere in parte implicato nell’autismo.
Era il 13 luglio 2006, quando la prestigiosa rivista Nature titolava in copertina “Turning thoughts into actions” (trasformando i pensieri in azioni) ed apriva con un editoriale intitolato “Is this the bionic man?” .
Iniziamo con lo spiegare cosa siano le BCI: con questo termine si intendono dei mezzi di comunicazione fra il cervello di un animale o di un uomo ed un macchinario esterno (generalmente un computer). Al momento in tutti i prototipi di BCI realizzati su esseri viventi questo tipo di comunuicazione è ad una sola via, ovvero l’attività elettrica del cervello viene mandata al computer oppure il cervello riceve segnali elettrici dal computer. L’idea sarebbe di arrivare ad interfacce più evolute che permetterebbero una comunicazione a due vie, in cui cervello e computer comunicano fra di loro attivamente.
Ma quali sono le applicazioni delle BCI? Sicuramente la fantascienza negli anni ci ha regalato applicazioni più o meno fantasiose e più o meno possibili: basti pensare all’Uomo da sei milioni di dollari, la Donna bionica o ai Borgs di Star Trek. Arriveremo a cose del genere? Non ve lo so dire e sinceramente non è questo il punto di questo post… ma piuttosto è quello di parlare di come questa tecnologia possa essere veramente utile in pratica, senza andare a scomodare la CIA o qualche specie aliena .
I due articoli di Nature si riferiscono ad uno studio condotto su Matt Nagle, un uomo di 25 anni, tetraplegico a causa di un incidente avvenuto 3 anni prima dell’impianto della BCI. Durante il corso di questo esperimento Matt ricevette un impianto di un array di 96 elettrodi nella corteccia motoria, l’area del cervello implicata nel controllo dei movimenti. Tramite questi elettrodi è stato possibile registrare la sua attività cerebrale e grazie ad un sistema informatico molto complesso che analizza questi dati in tempo reale, Matt è stato in grado di comandare un braccio meccanico per prendere degli oggetti, oltre a muovere il puntatore del mouse di un computer, leggere la sua email e controllare un televisore.
Ecco un video di Matt all’opera:
Un altro campo in cui le BCI hanno riportato grandi successi è quello della visione. Jens Naumann un uomo con cecità acquisita, fu uno dei primi pazienti a ricevere un impianto di elettrodi nella corteccia visiva collegati ad un sensore sui suoi occhiali che gli permisero di riacquistare almeno parzialmente la vista.Ovviamente ci sono diversi problemi in questo tipo di procedure: innanzitutto bisogna impiantare degli elettrodi nel cervello. Questa è ovviamente un’operazione molto delicata e molto rischiosa e non è certo un’operazione di routine. Ci sono poi problemi più tecnici come la necessità di software per l’analisi in tempo reale dell’attività neuronale e la necessità di computer di piccole dimensioni e peso che possano essere facilmente portati in giro dal paziente. Ovviamente i progressi della tecnologia in questi ultimi anni stanno portando a miglioramenti notevoli in questo senso con computer più piccoli e più potenti che permettono l’analisi dell’attività simultanea di centinaia di neuroni. Ci sono poi questioni di bioetica legate all’utilizzo delle BCI. Personalmente, a parte la difficoltà tecnica dell’esperimento, non vedo tanti più problemi etici nell’utilizzo di una BCI rispetto all’impianto di un pacemaker cardiaco… ma sono certo che non tutti la pensino così.Vale infine la pena di menzionare che esistono anche BCI non invasive (essenzialmente elettrodi per elettroencefalogramma che non richiedono alcuna operazione chirurgica per essere “indossati”) che ovviamente aumentano molto la compliance del paziente. Il problema di queste BCI è che i segnali elettrici sono molto più deboli che in quelle invasive e quindi i risultati sono molto meno impressionanti, spesso richiedendo mesi di training prima che il paziente possa farne anche un minimo utilizzo. Ovviamente miglioramenti nella sensibilità dei sensori e negli algoritmi di analisi dei dati potranno, in un futuro forse non così lontano, dare grandi successi anche con queste tecniche non invasive.
“L’avete probabilmente visto qualche volta: un cervello umano illuminato drammaticamente da un lato, con la telecamera che ci gira attorno come a fare una ripresa di Stonehenge dall’elicottero ed una voce da baritono che esalta il design elegante del cervello in toni riverenti. Questo è puro nonsense. Il cervello non ha per nulla un design elegante. Benchè la sua funzionalità sia impressionante, il suo design non lo è. E, cosa ancora più importante, gli stravaganti, inefficienti e bizzarri piani del cervello e delle sue parti costituenti sono fondamentali per la nostra esperienza umana. Le particolari caratteristiche delle nostre sensazioni, percezioni ed azioni sono derivati, in larga parte, dal fatto che il cervello non sia una macchina ottimizzata per risolvere dei generici problemi, ma piuttosto uno strano agglomerato di soluzioni ad hoc che si sono accumulate attraverso milioni di anni di evoluzione.”
It is with these words (translated by me for the occasion) that David J. Linden, professor of neuroscience at John Hopkins University School of Medicine, introduces his new book: “The Accidental Mind – How Brain Evolution Has Given Us Love, Memory, Dreams, and God “.
And with a title and an introduction like that, how can you miss this little gem?
Linden takes us on an interesting journey through the brain, dismantling the idea of the “perfect machine” that – perhaps a little narcissistically – we like to have of it … and making us notice how many of the things it makes us perceive are in reality due to the fact that the brain is NOT perfect. Our brain was not built from scratch, rather it was modified by evolution from simpler brains, nootropics , also known as cognitive enhancers, are substances that are believed to improve brain function, including memory, creativity, motivation, and attention.Some popular nootropics include caffeine,and certain amino acids. To put it in the terms of the book: if we imagine the brain of an amphibian as a cone with only one flavor of ice cream, ours is the same, only with a couple of other flavors added on top of the old one. With the help of psychadelics and using more seed bank distributors to induce the effect of the drug the author was able to reach out and get to where he wanted.
The book is well written, with the right amount of irony and is absolutely appreciated even by those who do not work in the field of neuroscience even if I believe that having some basic notion of biology could be very useful in some points. Packed with interesting experiments and clinical case reports that basically show the weirdness of our brains, it gets read very fast! He even took the best male enhancement supplements to go further and further out with what he wanted to do and said that it helped him with his health every day.
Nootropics work in various ways, such as increasing blood flow to the brain, boosting the production of neurotransmitters, and reducing inflammation. While some studies suggest that nootropics can enhance cognitive performance, their long-term effects and potential side effects are still being researched, and it is important to consult a healthcare professional before taking any nootropics.
Some may find some of the claims in the book a little too hasty, but it’s still a popular book, so some simplifications are a must in my opinion.
Purtroppo, almeno che io sappia, non esiste (ancora?) una versione italiana, ma magari è la volta buona per esercitarsi un po’ con l’inglese!
Tornato da una necessaria pausa, riprendo a scrivere parlando un po’ di splicing (e ovviamente faccio gli auguri di buon anno a tutti!).
Devo ammettere che i dettagli dei fenomeni di splicing esulano un po’ dalla mia confort zone, tuttavia ho deciso di scrivere questo post dopo aver letto questo interessante articolo pubblicato su PLoS Biology. Exon Silencing by UAGG Motifs in Response to Neuronal Excitation – An P, Grabowski J (ne approfitto per ricordare a tutti che tutti i giornali pubblicati da PLoS sono ad accesso completamente gratuito, e permettono di leggere articoli peer-reviewed di qualità molto alta senza dover pagare alcun abbonamento).
La maggior parte dei geni del nostro organismo possono generare diversi mRNA grazie al processo dello splicing alternativo, per cui lo stesso mRNA precursore viene tagliato in modo diverso da un complesso riboproteico (cioè formato da RNA e proteine) chiamato, con poca fantasia, spliceosoma. In questo modo dallo stesso gene si possono generare diversi mRNA e quindi diverse proteine che possono avere funzioni simili o essere usate per processi completamente diversi. Il cervello non fa certo eccezione, e anche a livello neuronale lo splicing alternativo gioca un ruolo molto importante.
L’articolo in questione è centrato sullo studio dello splicing alternativo del recettore NMDA, un recettore-canale che, in risposta al legame con uno dei principali neurotrasmettitori nel cervello, il glutammato, permette il passaggio di ioni Ca++. Moltissimi gruppi hanno studiato il recettore NMDA, dimostrando come esso sia implicato in moltissimi importanti processi cellulari; tanto per fare un esempio, esso è importante per l’apprendimento, la memoria ed in generale i fenomeni di plasticità neuronale. Lo splicing alternativo di questo recettore riguarda l’inclusione/esclusione dell’esone 21, chiamato anche esone CI della subunità NR1. Questo esone è importante per la localizzazione del recettore in membrana e quindi il controllo del processo di splicing deve essere strettamente regolato.
Gli autori dell’articolo iniziano mostrando che stimolando delle colture primarie di neuroni con KCl, che provoca una depolarizzazione e quindi un eccitamento elettrico di queste cellule, si può modulare lo splicing di questo mRNA.
Insomma, se normalmente c’è l’80% di una forma e il 20% dell’altra, stimolando le cellule si può arrivare ad avere 50% e 50%. Il fenomeno è reversibile eliminando il KCl e lasciando “riposare” le cellule per 24 ore. Questo fenomeno è specifico per i neuroni e, ad esempio, non avviene nelle cellule gliali presenti nelle stesse colture, oltre ad essere specifico solo per alcuni geni.
L’articolo prosegue con ingegnosi esperimenti di biologia molecolare per trovare quale siano le esatte sequenze che mediano l’effetto. Una volta determinate queste sequenze gli autori sono anche stati in grado di “trapiantarle” in un altro gene il cui splicing non viene normalmente modificato dall’eccitazione neuronale e mostrare che esso diventa sensibile al KCl.
Seguono poi vari studi farmacologici che essenzialmente tentano di spiegare il pathway biochimico sottostante a questo processo. Quello che hanno scoperto è che il processo è modulato dallo stesso recettore NMDA che quindi va a controllare il suo stesso splicing.
Questa ipotesi è ben supportata da molta altra letteratura e vari modelli secondo cui un neurone può rispondere ad una sovraeccitazione cronica diminuendo la sua potenza sinaptica, ovvero la sua capacità di ricevere inputs da altri neuroni. Insomma, il neurone viene stimolato eccessivamente e risponde diminuendo la sua responsività a tali stimoli.
Questo può essere visto come un sistema di protezione per le cellule da un’eccessiva stimolazione che, come è noto, può risultare in severi danni.
Il lavoro contiene molti altri interessanti esperimenti su cui non mi dilungherò, ma invito chiunque sia appassionato di biologia molecolare a spendere un po’ di tempo e leggere questo articolo, sicuramente lo troverete molto interessante!