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Il successo della terapia antiangiogenica nel trattamento dei tumori

Globuli rossi in un capillare


La terapia antiangiogenica è considerata una valida terapia da affiancare a quella tradizionale e permette di aumentare la sopravvivenza

Oggi nella lotta contro i tumori, la terapia antiangiogenica è una delle strategie più consolidate da affiancare alla chemioterapia. Quasi vent'anni è stato identificato il VEGF (Vascular Endothelial Growth Factor) il più importante fattore di crescita con attività angiogenica, capace cioè di far crescere i vasi sanguigni e tre anni fa è stato approvato per uso clinico l'Avastin-Bevacizumab, un anticorpo monoclonale anti-VEGF. La scoperta del VEGF si deve a Napoleone Ferrara, scienziato italiano trasferitosi poi negli Usa che ne pubblicò l'identificazione sulla rivista Science nel 1989. L'Avastin è il primo anticorpo in grado di bloccare nell'uomo il fattore VEGF e, secondo il sito degli studi clinici di FDA (Food and Drug Administration), e NCI (National Cancer Institute) risulta essere attualmente in corso di studio in quasi 300 trial. Ma alla 14.ma edizione della Conferenza Europea sul Cancro di Barcellona sono state presentate molte novità che riguardano l'anti-angiogenesi.
Un tumore cresce accanto ad un vaso sanguigno e lo modifica a suo piacimento, costruendosi delle canalizzazioni interne. E' la formazione di neo-vasi da quelli preesistenti che si definisce angiogenesi. Il neo-capillare è, per il tumore, una fonte di sostentamento e una via di trasporto per le metastasi. Per cui lo sviluppo e la diffusione nell'organismo di una neoplasia sono entrambi dovuti alla sua capacità di sorgere vicino ad un vaso sanguigno e di crescere alimentandosi con vasi propri.
L'idea di una terapia antiangiogenetica, per la cura dei tumori, è nata dopo gli studi condotti da Judah Folkman ad Harvard e da molti altri scienziati. L'idea di base è quella di soffocare il tumore tagliandogli la via di sostentamento, cioè i vasi che lo nutrono. I farmaci antiangiogenici di prima generazione erano diretti contro le metalloproteasi, gli enzimi dell'invasione, ma non ottennero il successo clinico sperato.
Era necessario arrivare a scegliere come bersaglio il circuito di attivazione della cellula endoteliale, che consiste nel legame tra VEGF e o suoi recettori di membrana, in particolare KDR-flt-VEGFR2. Il grande progresso è arrivato dalla produzione di anticorpi umani contro questo fattore che lo rendono inaccessibile per le cellule dei capillari. Secondo i dati della ricerca, pubblicata nel 2004, su oltre 800 persone affette da tumore metastatico colorettale. 403 pazienti sono stati trattati con chemioterapia standard, mentre a 412 è stata somministrato anche il farmaco antiangiogenico, l'Avastin. Quest'ultimo gruppo ha visto allungarsi di circa il 50% l'aspettativa di vita, rispondendo meglio alla chemioterapia, e sono rimasti più a lungo liberi da malattia, con effetti collaterali minori. Negli ultimi tre anni il farmaco è migliorato e migliora la sopravvivenza e l'intervallo libero da malattia in molti tipi di tumore. E il suo utilizzo è stato testato non solo per i tumori metastatici ma anche in terapia adiuvante (post-operatoria). Recentemente sono stati riportati dei miglioramenti nella cura del colon inoperabile e per il polmone.
Ora ci sono circa altri 30 farmaci antiangiogenenici in sperimentazione clinica. In generale i bersagli dell'angiogenesi sono diversi e si basano sull'attacco alle cellule endoteliali, i principali mattoni dei capillari. Si può impedire loro di crescere, bloccando il circuito fattore di crescita-recettore e proibire di 'spostarsi' da un capillare normale ad uno tumorale; impedire loro di farsi strada attraverso i tessuti con enzimi o proteasi; o inchiodare i recettori detti 'integrine' perché non migrino. Oppure con la talidomide, l'interferone o l'interluchina 12 (farmaci ad attività complessa) si può colpire l'intera cellula endoteliale. Infine si può intervenire sulla componente infiammatoria che induce l'angiogenesi, ad esempio con i COXib o con i flavonoidi, tipo genisteina della soia, soprattutto a livello preventivo.
Le caratteristiche di un farmaco antiangiogenico sono cruciali, in quanto, poiché non si uccide un tumore ma lo si soffoca e quindi si deve pensare ad una cronicizzazione della malattia, senza una completa guarigione, ma migliore sopravvivenza. Di conseguenza il farmaco deve avere una bassa tossicità per poter essere somministrato per lungo tempo, deve avere pochi effetti collaterali e deve poter essere utilizzato come adiuvante, cioè dopo l'intervento chirurgico per impedire recidive e metastasi. Inoltre fondamentale è che possa essere combinato con le cure tradizionali (chemio e radio-terapia).
Gli studi condotti sugli antiangiogenici hanno dimostrato l'importanza di combinare farmaci che attacchino bersagli diversi. Il matrimonio tra farmaci biologici e chemioterapici tradizionali, si accompagna nell'oncologia di frontiera alla combinazione di più farmaci "a target".
I dati di First BEAT, un ampio studio clinico internazionale multicentrico, condotto su 1.965 pazienti con carcinoma colo-rettale metastatico, giudicato inizialmente non operabile dimostrano che un numero elevato di pazienti trattati col farmaco anti-angiogenesi bevacizumab, in combinazione con chemioterapia, consente di aumentare la percentuale di resezioni chirurgiche del tumore. Questo risultato migliora quelli ottenuti in precedenza con altre combinazioni di agenti biologici e chemioterapia. 215 pazienti che hanno assunto bevacizumab in associazione con altre terapie chemioterapiche sono diventati eleggibili per il trattamento chirurgico risolutivo. La rimozione completa delle metastasi è stata ottenuta in 170 malati, 102 soggetti sono stati sottoposti a rimozione chirurgica delle metastasi epatiche e in 81 pazienti si è ottenuta la resezione completa del tumore.

Redazione MolecularLab.it (12/10/2007)
Pubblicato in Biochimica e Biologia Cellulare
Tag: VEGF, Avastin, bevacizumab, angiogenesi
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