Perché il cielo di notte è buio? Quel paradosso svelato da Edgar Allan Poe
Questa storia racconta di come il grande scrittore Edgar Allan Poe abbia intuito, prima di tanti grandi astronomi e scienziati, il motivo per cui il cielo di notte è buio.
Perché il cielo di notte è buio, giusto? Ci sono soltanto quei puntini luminosi, le stelle, a illuminarlo un minimo. Per il resto, è nero-bluastro, un enorme vuoto interstellare.
Però, pensateci bene: se è vero che l’universo è infinito, e che esistono infinite stelle… in teoria, in ogni punto del cielo si dovrebbe vedere almeno un puntino luminoso. Ovvero, sovrapponendo infiniti puntini, il cielo di notte dovrebbe essere tutto giallino. No?
Questo fenomeno si chiama Paradosso di Olbers. Negli anni, diversi scienziati hanno proposto la loro soluzione al perché il cielo di notte sia buio: alcuni pensavano che le nubi di polvere presenti nello spazio vuoto fossero capaci di oscurare le stelle più lontane. Un’altra ipotesi si basava sulla velocità della luce: anche se è la cosa più veloce che esista (come insegna la saga dei neutrini), la sua è comunque una velocità finita; la luce ha quindi bisogno di tempo per percorrere uno spazio infinito. E là dove la luce delle stelle più lontane non è ancora arrivata, vediamo il cielo nero.
Poi, nel 1929, l’astronomo Edwin Hubble (sì, si chiama come il telescopio spaziale!), ha dimostrato che l’universo si sta espandendo. Se si espande, significa che miliardi di anni fa era moooolto, moooolto meno esteso di oggi. E più le stelle e le galassie si allontanano, più aumenta la velocità con cui “scappano” dal nostro punto di osservazione, fino a raggiungere la velocità della luce. Immaginate un’ambulanza che vi passa accanto a sirene spiegate: quando è vicina a voi sentite un rumore fortissimo; quando è lontana, il volume delle sirene è molto più basso, ma ancora avvertibile; quando è troppo lontana, il suono non vi raggiunge più (ma non per questo l’ambulanza smette di sparare le sirene a tutto volume). Ecco, con la luce e le galassie avviene lo stesso: quando sono troppo lontane, la loro luce non ci raggiunge (e per di più, continuano ad accelerare). Per noi, quel punto dell’universo è buio.
Quasi cento anni prima di Hubble, però, si era avvicinato alla soluzione anche Edgar Allan Poe. Nel 1848, un anno prima di morire, scrisse il “poema in prosa” Eureka, nel quale rielaborava i contenuti di una conferenza sulla cosmogonia dell’universo che aveva appena tenuto a New York (dite la verità, non lo sapevate che il ragazzo s’intendeva di astronomia, eh?). In questo libro, poco noto persino ai suoi fan, Poe intuisce che “l’universo ha un’origine nel passato e che è in evoluzione“: tra l’altro, il fatto che il cosmo avesse un’età finita non era affatto un’idea popolare tra gli studiosi dell’epoca.
Per l’esattezza, nel libro spiega la sua personale soluzione al Paradosso di Olbers scrivendo che:
“Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo avrebbe una luminosità uniforme, come quella della nostra Galassia – perché non potrebbe esserci assolutamente nessun punto, in tutto lo sfondo, privo di una stella. Il solo modo, perciò, in cui potremmo comprendere i vuoti osservati dai nostri telescopi in tutte le direzioni, sarebbe di supporre che la distanza dello sfondo è così grande che nessun raggio luminoso possa aver ancora avuto il tempo di raggiungerci.”
Insomma, il grande Edgar aveva visto più lontano di tanti scienziati della sua epoca, nonostante fosse perennemente sbronzo. Forse è per quello che la soluzione al paradosso di Olbers non prende il suo nome?
Per approfondimenti sulla cosmogonia di Eureka, a questo link trovate un sacco di materiale in italiano.
Tag:astronomia, Edgar Allan Poe, Edwin Hubble, Eureka, infinito, neutrini, Paradosso di Olbers, poema in prosa, sbronza, stelle, telescopio Hubble, universo, velocità della luce, vuoto interstellare
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